E’ mattina e come sempre sto viaggiando in treno. No, non quelli veloci. Quelli li prendo per andare in vacanza, nei giorni in cui tutto sommato della velocità farei anche a meno. Il mio è un treno cittadino, qualcuno dice “metropolitano” per darsi un tono da abitante di una grande città. Quello che mi ruba la mezz’ora decisiva per perdere un appuntamento, fare tardi dal medico o trovare chiuso un negozio. Che mi costringe a restare in ufficio più a lungo per recuperare il ritardo e che consegna mio figlio alla sua scuola quando tutti i suoi compagni sono già seduti al proprio posto. Minuti di ritardo, minuti non programmati che si sommano giorno dopo giorno fino ad ergersi a generare una montagna di tempo impressionante. Tempo rubato alla vita.
Intorno a me tante persone. Una marmellata umana opprimente di viaggiatori senza volto che condividono spazio vitale con altre persone tutte uguali, tutte la stessa routine e la stessa sorte. Non ci si guarda, per lo più ci si subisce. Eppure ognuno di noi un volto ce l’ha e con il volto una storia. Quella di chi è andato a vivere in periferia per avere una casa più grande o forse solo per potersela permettere, una casa, avere più verde per i bambini, allontanarsi dallo smog sul treno diventa la stessa storia di chi ha scelto un quartiere residenziale per potersi comprare la villa che ha sempre sognato. Accanto al bengalese che può prendersi in affitto una stanza solo in certe zone c’è la badante lettone che si è stabilita qui con il marito, che fa l’idraulico. Quelli che vivono al centro hanno problemi diversi, non necessariamente di minore portata. Questa città lascia scampo solo ai ricchi. Per me i ricchi non sono necessariamente i titolari di un sostanzioso conto in banca. Sono quelli che possono permettersi una scelta. Chi sta nel treno con me, nella maggior parte dei casi, questa facoltà non ce l’ha.
Il vagone è un blocco unico, un muro umano in cui è impossibile muoversi. Sento l’odore dei miei vicini; dopo qualche anno il cervello inizia a catalogare i segnali che il naso gli invia. Si distinguono i vecchi, gli indiani, le donne e gli uomini, gli adolescenti, gli impiegati e gli operai e così via ogni tipologia. Le conversazioni ho smesso di ascoltarle; mi confondono e, spesso, mi deprimono. Preferisco otturare le orecchie in qualche modo. Quando posso, leggo. Non ora: questo treno si è fatto attendere a lungo, quasi sempre è così.
La banchina si è riempita di passeggeri che hanno lottato strenuamente per accaparrarsi pochi centimetri vicino al finestrino, per respirare un po’ meglio, o in un angolino più protetto che possa evitargli di essere travolti dalle spinte di chi tenterà di entrare alla stazione successiva. Leggere è impossibile. Il primo tentativo di alzare il braccio per portare il libro davanti agli occhi susciterebbe sguardi in cagnesco.
Nei giorni buoni osservo i compagni di viaggio con maggiore attenzione. Il viaggiatore quotidiano lo riconosci. Ha quella patina di polvere accumulata nell’attesa, di grigia rassegnazione agli eventi. Oggi il treno passerà in orario?
Salterà una, due corse? Si romperà nel tragitto fra due stazioni e dovrò attendere il primo treno successivo in grado di raccogliermi (spesso lasciandone passare un paio perché troppo pieni per penetrare la cortina dei corpi che sbarra l’ingresso ai vagoni)? Essere pronti a tutto cambia l’espressione del viso, che si fa più serio. L’espressione guardinga, mai davvero in pace.
Insieme alle facce studio i comportamenti. E’ chiaro che la maggior parte di noi sta soffrendo. Nessuno, potendo scegliere, se ne starebbe fermo per dieci, venti, trenta minuti con l’alito di un estraneo sul collo. Nessuno si farebbe calpestare un piede, nessuno subirebbe l’angolo di una borsa di cuoio sul fianco, uno zainetto addosso al petto, un ombrello bagnato che gocciola sui pantaloni senza spostarsi a cento metri maledicendo la maleducazione altrui. Ma qui non è maleducazione: è sospensione dell’educazione. Il civismo si incrina nella lotta per la sopravvivenza.
La sofferenza non trova sbocchi, se non nello sfogo offerto dai social network. So che tutti si indignano per ritardi, malfunzionamenti, condizioni di viaggio ai limiti ma vedo che restano apparentemente impassibili. Le dita però si muovono incessantemente sugli schermi dei telefoni. Le persone
cercano sul web conforto e condivisione per le proprie sofferenze, ma nel corso del viaggio sono tante solitudini silenziose. Durante il tragitto si pubblicano fotografie, commenti e pensieri, poi il treno arriva in un modo o in un altro a destinazione e tutto si sgonfia. Forse sopraffatto dalla giornata, dai propri impegni, forse disilluso di poter cambiare alcunché, il viaggiatore attende il prossimo viaggio, il prossimo supplizio, il prossimo ritardo da denunciare su internet attendendo la solidarietà di altri dieci, cento viaggiatori come lui.
Non posso fare a meno di chiedermi cosa succederebbe se, per qualche evento magico in grado di cambiare la storia, invece che macerarsi in mille solitudini confortate da un’illusoria solidarietà telematica, le energie di queste migliaia di persone convergessero in una protesta di massa coesa e focalizzata su un unico interlocutore. Se l’indignazione e l’esasperazione compresse da tanto tempo si concentrassero in un’azione ordinata e prolungata e fuoriuscissero con la portata che un torrente può avere quando passa attraverso un imbuto. Abbiamo dimenticato che il destino è nelle nostre mani e che la moltitudine non è solo traffico e caos, ma anche una opportunità. La moltitudine cambia la storia, è già successo e succederà ancora, anche se a guardarsi allo specchio oggi si può non credere. Monicelli diceva che la speranza è degli oppressi, che fa comodo ai padroni. Non voglio nutrire speranza, ma fiducia. Concittadini, amici pendolari, compagni di sventura.
Fidiamoci di noi.
Seu